sabato 27 settembre 2014

LO SPECCHIO


La tristezza e la felicità sono percezioni dell'anima, che interpreta la realtà e decide cosa pensarne.
Ma perchè scegliamo di essere felici o tristi?
Qualcuno dirà che non si sceglie di essere felici o tristi, capita.
Provate a immaginare, invece, la vostra vita in modo diverso.
Facciamo un esempio che può essere capitato a tutti: da bambini abbiamo fatto qualcosa di banale, chiamato la mamma, sorriso allo zio, e ci hanno fatto complimenti sperticati.
Siamo cresciuti e abbiamo fatto qualcosa che A NOI è sembrato fantastico, ma è passato inosservato, nessuno di quelli che ritenevamo quelli che ci amano, si è accorto di noi.
Come spesso succede, crescendo è arrivato qualcun altro che, solo per sorridere, attirava l'attenzione di tutti.
E abbiamo, nel nostro piccolo, cominciato a fare due conti: forse non valgo granchè, se basta un tipo di tre etti a mettermi in ombra.
Ma se la mamma e il papà ti amano come mai nessuno saprà e non ti calcolano, quanto puoi aspettarti di attirare l'attenzione degli altri?
Cresciamo, cominciamo a capire che non è poi così tutto o bianco o nero.
Ma solo in superficie.
Sotto sotto pensiamo ancora come un bambino.
E cominciamo a mettere in pratica quei calcoli innocenti di tanti anni prima.
Pur di non vedere cosa crediamo di non essere, siamo pronti a sparlare, sminuire, denigrare, catalogare.
E così creiamo 'gli altri', quelli che non sono buoni, quelli che ne approfittano, una massa di persone non per bene da cui stare alla larga.
E per non guardare i nostri limiti, che prima o poi arrivano per tutti, sminuiamo i talenti degli altri.
Lo facciamo senza accorgercene, con frasi del tipo: stai con i piedi per terra, devi pensare al futuro, scendi a compromessi.
Non crediamo più in noi e non crediamo negli altri, perchè sarebbe troppo doloroso accettare quel pensiero bambino di non valere niente.
La gioia viene se conquistiamo qualcosa che ci fa sentire importanti: l'amore di qualcuno, le relazioni affettive, un lavoro e una posizione sociale, abbiamo tutti cose che ci rendono felici.
E diventiamo tristi quando qualcosa ci ricorda quel timore infantile di non valere abbastanza.
Così se non riusciamo nella vita, se qualcuno riesce e noi no, diventiamo tristi.
Depressi.
Soli.
Se imparassimo a capire che le emozioni sono giochi di specchi che l'anima fa per non guardarsi, perchè qualcosa, tanto tempo prima, l'ha spaventata, capiremmo come fermarli, questi giochi.
Chiudiamo gli occhi: proviamo a ricordarci chi siamo davvero.
Siamo creature profondamente amate da chi ci ha creato.
Si, dirà qualcuno, ma io sono ateo.
Ok, profondamente amate da qualcosa che li ha fatti arrivare fin qui, fosse il nulla.
Siamo creature perfette, ma con una grande, sconosciuta paura: non essere amabili.
Noi vorremmo, a tutti i costi, essere amabili.
E non è essere amati, qualcuno che ci ama lo avremo sempre, ma essere amabili e quindi ogni indifferenza o no ci annientano.
Possono essere no fisici, qualcuno che proprio non ci vuole.
Ma possono essere no emotivi, qualcosa che va storto, qualcuno a cui va meglio, qualcuno che osa sognare di essere amabile.
A occhi chiusi, pensiamo invece a come siamo belli, a come siamo vulnerabili e quindi capaci di amare e gioire e ridere e piangere.
Pensiamo a come siamo bravi a venire in questa vita, crescere, superare le avversità, cadere e rialzarci.
Adesso apriamo gli occhi: vediamo come tutti gli altri noi stessi che abbiamo costruito nella vita, quegli altri sè, di cui investiamo gli altri del peso e dell'annientamento, sono solo riflessi in uno specchio assassino di quel nostro, vero IO che è bellissimo.
Si chiama proiezione.
Si chiama non gioia.
Si chiama "io non vivo bene, ma faccio vivere cento me male"
Godete la vita, lasciate perdere i paragoni, i ricordi, quello che avete fatto e credete di non aver fatto bene.
Salutate i vostri riflessi, ringraziateli di avervi protetto, ma che ora ce la farete da soli.
E' un esercizio meditativo.
Fatelo.
crediti per le immagini
photo credit: <a href="https://www.flickr.com/photos/marcp_dmoz/4178675792/">marcp_dmoz</a> via <a href="http://photopin.com">photopin</a> <a href="http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/">cc</a>

mercoledì 24 settembre 2014

LA GRANDEZZA COMPRENDE TUTTO

Spesso la gente mi chiede perchè io incoraggio tutti a seguire i loro sogni, senza mettere in guardia nessuno dai fallimenti e senza avvertire che la vita è fatta di compromessi e accontentamenti.
La risposta sta nell'incontro che feci, qualche tempo fa, con una persona davvero grande, la si potrebbe definire di successo.
Per il mondo intero, questa persona è bella, sexy, intelligente e nel suo lavoro davvero brava.
Dopo anni, cinquanta, in cui mi sentivo dire che dovevo darmi più da fare, che non potevo aspettare di diventare una scrittrice, che nella vita i sogni si pagano con la miseria e il disprezzo, che bisogna adattarsi e prendere quello che c'è, mi ero convinta di non sapere cosa c'è, di quello che c'è, di non essere in grado di provvedere a me stessa e, sì, di essere capace solo a riempirmi la testa di grilli.
Eppure mandavo curriculum, pulivo capannoni e facevo lavori di ogni genere, ma sembrava che non servisse, tutti si ostinavano a dire che io non mi davo abbastanza da fare.
A fare che?
Qualunque cosa: indolente, incostante, viziata.
Questa persona, incontrata per caso, visto i mondi distanti uno dall'altro, mi dice, la prima volta che ci fermiamo a parlare.
"E tu cosa fai nella vita?"
Io abbasso gli occhi e, mortificata, rispondo
"Cose qua e là. Ma il più del tempo sono disoccupata"
Mi guarda sorpreso e mi chiede se ho dei sogni.
"Certo" dico io illuminandomi "Voglio fare la scrittrice, anzi io sono una scrittrice"
"Ah, allora non sei disoccupata, non guadagni"
Beh, sì.
"E chissà quanto tempo passato al computer, a fare ricerche, a leggere nei volti delle persone"
Beh, sì.
"E poi scrivere e riscrivere."
Sì.
"Per non parlare di un'affannosa ricerca di un lavoro che paghi le bollette, tenendo sempre viva la fiamma della tua passione, per permettere al tuo sogno di trovarti anche al buio della povertà"
Improvvisamente, mi resi conto che quell'uomo non aveva nemmeno preso in considerazione l'idea che io fossi indolente.
Gli dico che, forse, ho sbagliato qualcosa nella vita, altrimenti sarei dove sono gli altri.
"E dove sono gli altri?"
Beh, hanno una famiglia, un lavoro.
"Ma tu ti sei data da fare per averli, non è cosa che succede a comando. Nella vita le cose accadono e noi dobbiamo farci trovare dove accadono. Ma a volte le strade che la vita prende sono tortuose e ci fanno credere di esserci persi"
Mi racconta del suo lavoro, dei giorni senza un soldo, dei lavori umili, della voglia di lasciar perdere.
"E cosa dici che dovrei fare io?"
"Non mollare mai. Potresti non farcela mai, ma questo non deve diventare importante.
Mollare significa non crederci più, significa considerare il lavoro che ti paga le bollette come un fallimento.
Sei una scrittrice sempre, anche quando lavi i piatti in un ristorante, cambia solo come gli altri ti guardano. Tu cosa vuoi? Che gli altri ti osannino o essere una scrittrice? Perchè se è la prima che vuoi, allora hai fallito, ti sei accontentata. Se invece è la seconda, hai vinto e niente ti scoraggerà"
Ho capito, quel giorno, che la gran
dezza prende dentro tutto, compreso i tuoi sogni, le tue paure e le tue battaglie.
Ho capito che quelli che per anni sono stati convinti che io ero un lavativo e che avevo la stupida idea di diventare una scrittrice, proiettavano il loro fallimento, la loro resa, di fronte a un sogno che loro avevano abbandonato.
Fare la cameriera, la lavapiatti, o qualunque altro lavoro faticoso, non è una resa ai nostri sogni di adolescente, non è rinunciare ai nostri talenti per una vita come si deve.
La vita come si deve è quella che ci fa sentire grandi sempre, è una vita che da coraggio a noi e agli altri.
Io non ho lavoro come migliaia di persone perchè il potere di darlo è in mano a pochi che hanno messo in ginocchio il mondo. Papa Francesco ha scritto la esortazione apostolica "Evangelii gaudium" dove dice cosa un cattolico deve fare, per includere tutti nella società.
Ognuno di noi ha il suo ruolo e io ho deciso che ho il ruolo di fare coraggio e ricordare quello che, una notte in un sogno, Gesù mi disse, mentre mi aggiravo per le vie di Nazareth "Dì a tutti che Dio è qui, con voi. Sempre"
Come non ubbidire a un sogno così?

lunedì 22 settembre 2014

SIAMO FATTI DI SABBIA

Certi giorni sono felice, tutto mi sembra possibile e il futuro non mi spaventa. Ci sono giorni invece che guardare al domani diventa difficile e niente mi sembra al posto giusto.
In tutto questo, le relazioni umane sono molto importanti.
Tutti noi abbiamo relazioni: le abbiamo con le nostre famiglie, se ne abbiamo una, con i nostri amici e con chi capita nella nostra vita per lavoro.
Ci sono i nostri animali, le nostre cose, i nostri sogni.
Con tutto ciò abbiamo una relazione che condiziona la vita e il nostro modo di percepirla.
Noi siamo, anche, il qualcuno degli altri, visitatori inesperti della loro vita, passati di lì per renderla migliore o peggiore, fantastica o incolore.
Siamo così intenti a definire cosa gli altri ci devono dare, cosa devono portare nella nostra vita, che ci dimentichiamo che siamo, per loro, l'altro.
Quello che cambierà la giornata, o il mondo intero.
L'emozione di uno sguardo che entra nel tuo, di una mano che stringe la tua; il calore di qualcuno che si occupa di te, un momento, come i miei dottori, o mesi, come i miei amici in questo periodo.
Tutto questo ci fa sentire grandi, ci fa sentire umani.
Nella solitudine, invece, tutto diventa ovattato, i colori si spengono e i sogni diventano lontani, difficili persino da immaginare, mai raggiungibili.
Perchè quando hai un sogno, hai bisogno di qualcuno che ti dice che ce la farai.
Nessuno può dirti il contrario, perchè nella vita ci sono i colpi di fortuna, che arrivano anche se lavori male.
Ci sono i risultati di quando lavori bene, ma anche il fallimento dopo che hai fatto tutto.
Niente è sicuro, come niente è per sempre e se tu hai fallito devi sapere che dopo puoi vincere con altrettanta facilità.
Chi dice che il successo è frutto solo del duro lavoro mente a voi e a se stesso.
E' vero solo che l'inerzia non porta al successo, ma il fallimento non è sintomo di lavoro fatto male.
E' sintomo che non era il momento giusto, che Dio aveva deciso per noi diversamente.
Quando ci impegniamo, lavoriamo sodo, ma tutto crolla, ci viene voglia di non credere più a Dio, figuriamoci a noi stessi.
Io lo so, sono stata sola per tanto tempo.
Di una solitudine feroce, che mangia dentro, invisibile al mondo e, credevo, a Dio.
In quel buio, ho visto una me che si sgretolava, incapace di consolarsi, piena di dubbi e di paure.
Ho pregato, in quel buio e forse adesso capisco che quel buio serviva a quello.
Ma ho imparato anche un'altra cosa; cosa vorrei che facessero gli altri per me?
E, faticosamente, nel rancore dapprima, nella tristezza poi, ho arrancato fino all'uscita, pensando che quello che volevo io era qualcuno che mi ascoltasse, qualcuno che invece di giudicarmi, faceva per me il lavoro sporco, quello di scuotermi, di fare quello che la mia tristezza mi impediva di fare.
Ho imparato, così, che mentre si è tristi si deve pensare agli altri, perchè tutto ti sembra meno grave, quando colpisce gli altri, e riesci a trovare soluzioni che per te non trovi.
Ho scoperto che fare per gli altri quello che volevo per me non era diffici
le, era solo da inventare.
Perchè nessuno mi aveva mostrato come farlo.
Io non l'avevo mai avuto.
Ma ho dovuto cominciare io.
Da sola.
No, un momento, non ero sola.
C'era quello che mi aveva ascoltato tante sere, da sola io e Lui.
E non so come, non so quando, mi ha trasformato.
E quando le prime volte aiutavo gli altri senza emozione, poi sempre più coinvolta, ho scoperto che gli altri mi guardavano e poi imparavano. E si accorgevano degli altri.
E così, via via, un'onda si allargava e ognuno diventava l'altro dell'altro.
Siamo fragili, abbiamo bisogno d'amore.
E' il regalo più grande che ci ha lasciato Dio.
Non sprechiamolo.

venerdì 19 settembre 2014

UN FIORE TRA LE PIETRE

Ieri scambiavo le mie opinioni con altri volontari su come gestire gli aiuti ai poveri.
Certo i gruppi hanno dalla loro il bello che molte idee, molta azione.
Dall'altra parte, hanno la noiosa abitudine di non mettere mai d'accordo nessuno.
Ho imparato che viaggiare, condividere culture, vivere con gente che non ti ha visto nascere, non ha corso nelle tue strade e, quindi, non vede il mondo come sei abituato a vederlo tu, da un grande vantaggio: non ti senti messo indiscussione ogni volta che qualcuno non è d'accordo con te.
Personalmente capisco la maggior parte dei miei compagni di volontariato: andare a fare la coda a un magazzino che distribuisce merce deteriorabile, distribuirla in giornata perchè si possa consegnare qualcosa di ancora edibile, non è un bel passare le giornate.
Non è il lavoro faticoso che spaventa, ma il lavoro emotivo.
Nel profondo del nostro cuore, tutti temiamo l'indigenza.
Ricordo quando eravamo ricchi, la punizione era andare a letto senza cena, per i bambini, e sospensione dell'erogazione paghetta da adolescenti.
Si sentiva, in quei casi, la gelida mano del non avere, quel brontolio allo stomaco che disturbava il sonno e quel dover inventare scuse perchè non si avevano i soldi per uscire con le amiche.
A nessuno piace toccare con mano la povertà, scendere a livello del povero e non per alterigia o snobismo, ma perchè sperimentare la visione dal basso ci atterrisce.
Mia madre mi raccontava come, passata la guerra con tutte le sue restrizioni e razionamenti di cibo, lei si era trovata a goderne più del dovuto.
Come per scacciare il ricordo della fame.
Mi sono resa conto come io sia la più adatta a fare la fila alla Caritas, a chiedere ai supermercati se c'è cibo da ritirare, perchè per me non c'è differenza con la mia vita attuale, ma la cosciente urgenza che ha chi deve aspettare di ricevere.
Questo mi ha dato una volta di più la consapevolezza che niente succede per caso e in un mondo di sofferenze, a me è capitata questa, ma Dio ha saputo utilizzarmi anche così, disoccupata.
Ho ricordato le invettive, malcelate dietro faccine contrite di circostanza, di quelli che dicevano che, in fondo, la mia situazione mi andava bene così. Io ogni volta ne piangevo, incapace di capire come si potesse credere che la povertà si scelga.
Adesso, dopo aver pianto di gioia al sì di una nota azienda alimentare, che ci ha aperto la sua lista di donazioni, mi sono resa conto che Dio mi ha trasformato da snob donnetta borghese in una donna che piange di gioia perchè sa che, girando tutto un giorno, riuscirò  a riempire il frigo a qualcuno, magari con dei bambini.
Ho ricevuto e nel ricevere il mio cuore si è sciolto, sono stata felice e ho potuto dare.
Basta davvero un gesto gentile al giorno, da ognuno, per sciogliere il cuore più arido, per regalare bellezza alle pietre.
Continuare a ripetersi che il mondo così deve cambiare, che non si può andare avanti, non serve a niente. Lamentarsi non è mai servito, se non giusto il tempo di scsricare un pò di frustrazione.
Ma poi bisogna cambiarlo, questo mondo arido.

Non so cosa posso dare ai miei compagni di volontariato, ma so che anche loro troveranno il modo di valorizzare le loro esperienze e insieme a me faremo grandi cose. Ma non grandi perchè siamo bravi, ma grandi perchè aiutare gli altri è il modo più eccitante e bello che conosco per cambiare il mondo un pezzo alla volta.

martedì 16 settembre 2014

DALLE NOVE ALLE CINQUE

Ieri, mentre aspettavo di essere ricevuta da un manager, sento la receptionist dire al telefono "Senti, io provo, ma ho paura che mi risponderanno male" e concludere poi, dopo aver 'provato' "come ti dicevo, mi hanno detto che non gliene frega niente e di andare a..."
Questa telefonata mi ricorda molto un episodio che mi è accaduto con un cliente, mentre lavoravo come interprete.
Avevo una domanda urgente da fare e il filtro tra me e il cliente mi aveva avvertito nel medesimo modo
"Senti, riformula meglio la richiesta, perchè se vado da lui con questa mi manda a zappare le ortiche nel suo orto"
Tutti noi co alziamo presto, chi meglio chi peggio, e lasciamo un letto che vorremmo ancora per andare a farci una doccia, metterci in ordine e uscire. Qualcuno di noi prende l'auto, altri i mezzi pubblci, pochi a piedi, e raggiungiamo il nostro lavoro, da dove ce ne andremo dopo otto ore.
Torneremo a una casa che vedremo la sera, stanchi, mangeremo, guarderemo un pò di tv, qualche sera cenetta fuori, ma raramente, controlleremo le bollette e poi andremo a dormire, in un letto da cui riemergeremo il giorno dopo.
Passiamo la maggior parte della nostra giornata al lavoro, non con le nostre famiglie, con la persona che amiamo, ma al lavoro.
Luogo in cui dobbiamo sottostare al malumore dei capi, al ritmo di una società che non rispetta più l'uomo da tanto, tanto tempo, per spendere la maggior parte del nostro stipendio in tasse e servizi per una vita decente.
Che non abbiamo perchè i nostri luoghi di lavoro sono diventati covi di serpi e gente stressata e depressa e arrabbiata.
Tutti noi.
Come mai?
Perchè abbiamo fatto del lavoro un obbligo senza ragione.
Quando dico che sono disoccupata, non ci crederete, ma la frase più frequente è "Beata te!", subito seguita da uno sguardo come quello del cane scoperto a fare pip+ sul tappeto e da scuse farfugliate in fretta.
Sono pochi quelli che amano il proprio lavoro e anche loro sono rovinati dalla convivenza con colleghi ormai irritanti, stressati, violenti verbalmente.
Certo, il consiglio che adesso vi aspetterete è "Cosa possiamo fare noi? Cominciare ad essere gentili"
Invece no.
Dobbiamo, quando un collega è maleducato, rispondergli
"Io non permetto a nessuno di rivolgersi a me con quel tono"
Certo, direte voi, ecco perchè sei disoccupata.
No.
Sono disoccupata perchè ho cinquant'anni.
Finchè ho lavorato ho cercato di essere gentile, cordiale, fare buon viso a cattivo gioco.
Invece di ottenere il mio posto, ho ottenuto una depressione dolorosissima a causa del mobbing di un ufficio del mio paese, che vorrei tanto nominare se fosse legalmente possibile, ufficio che non ho avuto la forza di denunciare, per portargli via quei magri guadagni che lo hanno portato, negli anni, ad essere indagato, ridotto, chiuso e riorganizzato.
Perchè erano stressati.
Perchè erano cattivi.
Quando sono riemersa dal male che mi avevano fatto, perchè a volte è proprio colpa degli altri, ho capito che a nessuno deve essere permesso di trattarci male, con condiscendenza, con arroganza.
Vuoi licenziarmi?
Fai pure.
Ma non mi spezzerai, non mi farai credere che non valgo niente solo perchè tu lo credi di te stesso.
Nessun lavoro vale la nostra dignità.
Non permettete a nessuno di calpestarla, per nessuna cifra.
Non permettete a nessuno di farvi diventare prostitute di autostima, vendendo il vostro sano orgoglio per tenervi un posto che vi verrà levato comunque, se a qualcuno va bene così.
Non serve far volare i computers, come fece un mio amico (peraltro ancora lavorante nel medesimo ufficio, ma con molto più rispetto) ne serve offendere.
Basta volersi bene.
Basta dire a chi non se ne vuole "Cambia tono con me, perchè questo non ci porta a niente"
Tutto quello che l'altro vomiterà dopo sarà addosso a lui.
E se sarete licenziati, o costretti a farlo, sappiate che l'avrebbero fatto comunque.
Io fui lasciata a casa da quell'ufficio perchè non scaltra abbastanza per nascondere gli ammanchi, cifre che poi portarono chi mi aveva tagliato davanti a un giudice.
Troverete chi vi dirà che non siete umile abbastanza, che un lavoro bisogna tenerselo stretto ecc...ecc..
Io l'avevo fatto e ne sono uscita a pezzi.
Non date mai per scontato che chi comanda ha il diritto di umiliare, pagarti poco, sfogare le sue ansie su di te.
O sarai responsabile di tutti quelli che, per mobbing, si ammalano.


lunedì 15 settembre 2014

ANCORA BUONO

In questi giorni, per una ricognizione tra gli alimentari locali per una organizzazione no profit, ho scoperto quanto cibo finisce nella spazzatura.
Cibo buono, ma tecnicamente non più adatto alla vendita.
E quando dico cibo buono, intendo ottimo.
La nostra società impone standards di qualità e sicurezza che portano il cibo a essere invendibile per molte ragioni, ma non perchè è cattivo.
Tant'è vero che molto cibo 'buono' è pieno di conservanti e materiale potenzialmente tossico per l'organismo. In più, se non fosse per la data di scadenza imposta, non suggerita come in altri Paesi, ce lo venderebbero per mesi dopo la sua deperibilità.
Invece tocca buttarlo.
Bene, direte voi.
No.
Perchè gli standards della società sono basati sullo spreco e sul maggior guadagno, sulla falsa sicurezza del pago e voglio il meglio.
Molti cibi vengono adulterati per durare di più e oggi ci sono gli OGM che allungano la vita del prodotto.
Il cibo buono...lo buttano.
Perchè la nostra società trita tutto quello che non è al meglio.
Anche le nostre anime.
Andare a chiedere di usare cibo, che altrimenti andrebbe nel cassonetto, per la carità espone a molta burocrazia, passaggi in uffici e sentitamente dispiaciuti dinieghi.
E tu ti domandi come mai, visto che tanta gente non ci dorme la notte per il frigo vuoto, noi non abbiamo una legge che tutela chi viene ucciso per strada da un ubriaco, non abbiamo una legge che tutela chi ti truffa, anzi alcune leggi aiutano i malintenzionati a truffare, ma abbiamo una legge che vieta di usare il cibo in scadenza se non a determinate condizioni.
Certo, se tu lo paghi, ti danno cibo che puoi far andare a male personalmente.
Ma pensano che nel momento in cui tu ricevi gratis un prodotto con una data che dice che quel prodotto scade dopo due giorni, o tre, tu allegramente lo lasci marcire in frigo, un frigo che tu hai visto vuoto per giorni, per poi mangiarlo quando puzza.
Pensano, i nostri legislatori, che noi siamo una manica di babbacioni che mangeranno il cibo quando sarà immangiabile.
E staremo male.
E una legge perseguirà l'azienda che lo ha distribuito.
Allora servono firme e firme.
E firme.
Aiutatemi a dire e firme.
Per ritirare un prodotto che il povero mangerà subito, perchè ha fa
me ed è felice di riceverlo.
Allora io dico ai governanti, a quelli...sì sì, proprio a quelli che hanno rubato i nostri soldi, che hanno mentito, che hanno fatto sparire milioni, ma che non tollerano che si distribuisca il cibo che potrebbe, forse, essere dannoso un giorno, dimenticato in frigo, dico a questi paladini del fresco:
date libertà ai gestori di alimenti, siano essi aziende, negozi, commercianti, di REGALARE il cibo con la sua bella etichetta che dice che scadrà.
E poi, allegramente come hanno gozzovigliato con i nostri soldi, confidino nel fatto che chi lo gestirà non avvelenerà nessuno, non mangerà inavvertitamente cibo avariato e si nutrirà grazie al loro buon cuore, che ha fatto una legge che facilita la distribuzione del cibo.
Così, una volta tanto, mangeremo tutti.

venerdì 12 settembre 2014

SONO DEPRESSO


Oggi voglio parlare di depressione.
Lo so, ne parlano tutti, ma raramente riusciamo a spiegare cosa si prova.
J.K. Rowlings, la 'mamma' di Harry Potter, dice che i personaggi inquietanti della sua saga li ha presi dai fantasmi che agitavano la sua mente durante la depressione. Fu ricoverata dopo un divorzio, la disoccupazione e la povertà e un trasferimento prima in Portogallo, poi di nuovo in Inghilterra.
A un certo punto, disse, semplicemente smise di lottare e affogò.
Harry Potter piace così tanto perchè succede quello che tutti noi desideriamo, quando siamo depressi: vedere magicamente risolversi tutto.
Ma noi non possiamo.
Siamo stati forti, siamo stati dei guerrieri, ma alla fine è durata troppo, o è stata troppo dura, e noi ci siamo stancati e invece del riposo del gladiatore, ci aspetta una valle buia e solitaria, da dove nessuno ci viene a riprendere.
Sentiamo che i nostri figli, i nostri compagni, persino le nostre passioni, sono di là da un muro, non ci interessa più guardare oltre, vogliamo solo che tutto finisca.
E nessuno ci è utile, almeno nel momento più buio della depressione.
Se la depressione è diventata clinica, dobbiamo affidarci ai medici, ma se la prendiamo in tempo, quando ancora non fa male, oppure se stiamo uscendo ma anche se la stiamo curando, io ho trovato grande aiuto nella meditazione.
Lo yoga, il QiGong e la meditazione rilassano, muovono energie che aiutano la chimica del nostro corpo a ritrovare l'armonia persa.
Sì, perchè la depressione altera la nostra chimica emotiva, oltre che fisica e noi dobbiamo prenderci carico del nostro corpo.
Si è ammalato, ci chiede aiuto, ci sta dicendo di fermarci a pensare.
Un errore che facciamo tutti è quello di volerla fuggire, come si fugge un mostro, come si fugge un nemico.
Invece, un giorno un frate mi disse "Quando sei depresso, stai passeggiando con Dio"
Io non avevo la fortuna di avere qualcuno a cui importasse, allora, e cominciai per forza e per inerzia, a passeggiare con Dio.
Gli esseri umani, dopo un pò, tendono a stancarsi dei giri concentrici che noi depressi facciamo, quel nostro rimuginare, tornare sui pensieri, non uscirne.
Dio no.
E così presi a raccontargli tutti i miei affanni, a occhi chiusi, sentendomi ridicola e tenendo le mani sulle ginocchia e il dito indice e pollice uniti, che faceva tanto buddista.
Passarono i giorni, passarono le settimane e un giorno, aprii gli occhi e l'aria non era più così nera.
Qualche giorno dopo, al momento di aprire gli occhi notai che il mio paese era bello, con il sole e la primavera.
Ma come, mi dicevo, io ho solo lamentato una vita mediocre, la mia autostima scarsa, gli altri che non mi capiscono...
Poi cominciarono i miracoli quando gli occhi erano ancora chiusi.
Presi a ricordare le cose belle della vita: prima una, poi due e via via sempre di più.
E quei dieci minuti al giorno divennero quindici, poi venti e poi una mezz'ora.
Tornavo a quando ero stata felice, cercavo di ricordare com'era.
Qualche settimana dopo mi scoprii a pregare, durante la meditazione, a chiedere a Dio di darmi le cose che avevo perso, di aggiustarmi i giocattoli rotti, come dice de Mello.
E qualcosa fece: mi sentii meglio, partii per l'America e vissi due anni stupendi. Non ho mai smesso di meditare, di pregare, di lamentarmi con Dio e di ricordare le cose belle.
Ma ho smesso di credere che la depressione è un male nero.
Perchè io, che l'ho avuta, ho scoperto che la depressione è un campanello del cuore, che mi diceva che non potevo andare avanti, che dovevo fermarmi.
E io l'ho fatto.
Ho guardato dentro di me, nell'abisso della disperazione, senza giudicarmi.
Senza dirmi che ero stupida, che ero malata, che dovevo guarire.
Mi sono fermata ad ascoltarmi: ascoltarmi mentre mi dicevo fallita.
Ascoltarmi mentre mi dicevo sfortunata.
Mentre mi dicevo il mondo è cattivo.
Dicevo che non valevo niente.
Io ero arrabbiata.
Arrabbiata con la vita.
Con la morte.
Con l'ignoto.
Perchè non li capivo.
E ho scoperto che non sono da capire.
Che per quanto tutto sia brutto, passa.
Ho scoperto che niente viene per caso, che sono parte di un universo grandioso a cui devo la vita e a cui posso dare un contributo.
Ho guardato nell'abisso e sono tornata.
E potete farlo tutti.


giovedì 11 settembre 2014

DIVERSAMENTE

Nella Sua grande fantasia, Dio mi ha messo, in questi giorni, in un gruppo che si occupa dei poveri.
E' vero, sembro essere l'unica che sa cosa vuol dire ricevere la carità, quella vera, che sostiene.
Anche io ero orgogliosa.
Anche io ero diffidente.
Anche io ero polemica.
Anche io non capivo come non si potesse trovare il modo di pagarsi i conti.
Poi la crisi, i miei politici e persone che hanno rubato i soldi alla mia famiglia me lo hanno spiegato.
E ho imparato che la diffidenza si può trasformare in scaltrezza.
In fondo lo dice pure Gesù e sappiamo bene che se ne intende di anime: candidi come colombe e scaltri come serpi.
E ho adottato questa filosofia anche nell'aiuto ai poveri.
Ci sono e ci saranno sempre gli indolenti, gli approfittatori, tant'è vero che la patria dell'efficienza, la Scandinavia, prevede un fisso mensile a chi decide di stare a casa, per stare con i figli, per fare un lavoro che gli piace.
L'individuo sa che avrà al massimo il sostentamento, ma non l'impegno di un vero lavoro.
Insomma, sceglie come vivere.
Il povero non l'ha scelto.
Il povero, al massimo, si è trovato in un ingranaggio di povertà e depressione da cui non è uscito più.
E sembra querulo.
E sembra lamentoso.
Noioso.
E falso.
E, sopratutto, straniero.
Per noi è molto importante questa parola: straniero, uno che ha portato i mali del mondo, perchè la mia razza, il mio sangue, la gente che conosco, loro non possono aver fatto questo scempio di un Paese che era latte e miele.
Certo se ci dovessimo occupare solo dei nostri poveri, che sono già tanti, ci sarebbero più risorse.
Ma la carità non è fatta di etnie.
Certo se tutti fossimo ricchi, se ci fosse la pace nel mondo, se non ci fossero più carestie...
Se il mondo fosse più giusto.
Ma cosa fa questo mondo un mondo quasi invivibile?
Avete mai pensato cosa hanno in comune tutte le storture del mondo che incontriamo?
Pensateci.
Noi.
Ci siamo dentro tutti.
Papa Francesco dice che non fare il bene che si può è un gran male.
E se quello che puoi fare tu è solo non pensare male?
Se quello che puoi fare tu è solo dire "Io non amo fare carità allo straniero. Bene. Questo è un mio pensiero e forse non la farò"
Senza farlo diventare un pensiero collettivo.
Perchè non lo è.
Tutti abbiamo i nostri pensieri, le nostre convinzioni, ma non metterle mai in discussione non è umano.
Ci fa diventare dei robots.
Lo straniero non è un nemico, è solo uno che ha deciso che voleva provare a vivere da noi.
E non ci è riuscito.
Come capita a tanti di noi.
Il povero non preferisce chiedere la carità, toglietevelo dalla testa.
Potete continuare a pensarlo.
Ma non è la verità.
Potete continuare a scegliere a chi fare la carità, o a non farla.
Avete dalla vostra un Dio che non conta quante volte e quanto date.
Quando Gesù vede la vedova dare gli ultimi due denari e dice che quella sì aveva fatto la carità, si riferiva a questo: fede, amore e tutti i sentimenti che, se non coltiviamo, appassiscono.
Si riferiva al bene che vi fate quando rompete il guscio che vi isola dagli altri.
Facebook è pieno di gente che cerca amore, scatena odio, mente.
Perchè ci siamo dimenticati di come si ama.
Amare perchè si è soli la sera non è amare.
Cercare compagnia perchè " cosa vuoi, alla mia età cosa speri di trovare?" non è amare.
Accettare l'altro.
Capire che l'altro vuole essere felice come lo voglio io.
Considerare che se io non metto in discussione i miei pensieri e sono pronto a cambiarli, l'altro sarà sempre un demone.
Questo è amare.
Cercare di andare d'accordo finchè non torneremo tutti a casa.
E vedrete quanto amore invade le vostre case vuote la sera.
Quanto amore inonda la vostra vita di cinquanta, sessanta, settant'anni.
L'amore costa eccome, non è gratis.
Costa uno sforzo enorme, che io ho fatto e vi garantisco ne vale la pena.

Dobbiamo ammettere che il Paradiso è uno.
Con una grande, unica, bellissima porta.

lunedì 8 settembre 2014

LETTERA D'AMORE

Ti amo solo perchè ti amo. Così, come diceva Neruda.
Non so perchè, ma so come è cominciata: mi hai guardato un attimo, distratto  poi da altre cose, e io ho visto che avevi la pelle bellissima e gli occhi pieni di mondo.
Ho sentito un brivido caldo passarmi attraverso tutto il corpo e non era febbre, no, sapevo che era quella cosa sublime e pericolosa che si chiama amore.
A volte dovrebbe chiamarsi in un altro modo.
Ho provato a dirtelo, te l'ho detto in modi stupidi, ridicoli, patetici.
Ma te l'ho detto.
Ti ho detto che quando sento il tuo nome, una pioggia di luce mi avvolge e mi trasporta in un mondo dove ci credo che in Paradiso si può essere felici.
Quando ti vedo, sono sicura che un posto migliore di questo esiste e ne siamo i proprietari, gli eredi.
Perchè come mi fai sentire tu deve essere il preludio al Cielo.
All'imporvviso la vita difficile diventa un regalo, quel trovarsi qui e adesso, con un tempo e uno spazio che mi fanno sentire la tua presenza e la tua distanza.
Perchè ti amo?
Così.
Perchè prima non c'eri e andava bene, ma adesso non va più bene niente, se non ci sei.
Sembra che tu abbia il codice del sole, mentre le stelle si fermano a chiacchierare con me, chiedendomi quanto tempo è che non ti vedo.
Come ridi, come a volte parli piano, abbassi lo sguardo e poi lo rialzi, e mi guardi incredulo.
E poi ridi di nuovo, come se ti fosse sfuggito un segreto, ma felice che io sia lì ad acchiapparlo.
Ti amo perchè parli veloce, allegro, anche quando sei stanco.
Ti amo perchè mi hai fatto delle domande sulla mia vita, prima che io te le facessi sulla tua.
Ti amo perchè dici che sono straordinaria dove io non mi vedo straordinaria.
E poi sorridi e dici che non hai mai incontrato una donna così, che sembro una tranquilla e invece mi sono successe tante cose.
Quando mi accarezzi e dici che sono carina, ma poi dici anche che sono matta.
Ti amo quando mi chiedi se sono la più matta delle sorelle e, quando io ti dico di sì, tu ridi e dici che va bene così.
Ti amo perchè t'importa.
Ti amo perchè non mi hai voluto con te.

venerdì 5 settembre 2014

GUERRIERI DELLA VITA

E' capitato a tutti: c'è un momento in cui ti sembra che il mondo sia uno schermo cinematografico, un attimo in cui tutto sembra fermarsi e tu sei lì, stranito, a chiederti se sei sveglio o stai sognando.
Capita quando ti rubano un parcheggio, quando un impiegato dell'Inps ti dice, dopo due ore di fila, che lo sportello è "quello a sinistra".
Tu ti blocchi e pensi
"Ma...sono su Candid Camera?"
Poi ci sono i momenti in cui ti danno le brutte notizie, o scopri una malattia o, come è capitato a me, sperimenti cosa vuol dire essere quasi cieca.
In quel momento, la sorpresa è la stessa, c'è quell'attimo di fermo immagine che è uguale per tutto: dal portafoglio nel frigo al medico che ti dice che sei malato.
La vita è davvero strana.
Questa notte, avevo uno di quei mal di testa che non avevo da tempo, uno di quelli che battono e non ti fanno dormire.
Io ho paura a prendere medicine, come racconto nel libro, e ne prendo due molto forti, quindi ho detto "E adesso, dovrei prendere anche quella per il mal di testa?"
Così, essendo la mezzanotte, non potevo chiamare i miei soliti amici medici, o la cugina farmacista, e ho optato per tenermi un mal di testa da testa contro il muro.
E mi sono detta
"La vita è questa? Stare male, guarire, innamorarsi, faticare, lavorare, ammalarsi, invecchiare?"
ho visto quell'attimo in cui non giudichi, non ti lamenti, non gioisci, non sei niente.
E mi sono detta
"Che figata."
Sì, perchè nonostante tutto, la vita ha quella linea sottile di speranza che abbiamo tutti, quella voglia di farcela sempre, quel sogno che tutto si sistemerà.
Una canzone country americana dice
"Ogni nuvola ha la sua linea d'argento, ogni vita ha il suo lampo di gioia"
Gli americani chiamano silverline, linea d'argento, quella sottile linea che separa le nuvole dal blu del cielo. Il sole è sempre sopra le nuvole, anche quando sono nere, così la luce, almeno una linea, si riflette e noi vediamo la nuvola, invece che un cielo tutto grigio.
Ecco, quell'attimo in cui tutto ci colpisce è il lampo che ci farà rinascere.
Dobbiamo tenerlo a mente, perchè una volta scoppiata la tempesta non ce lo ricorderemmo più, se non l'abbiamo salutato.
Siamo tristi, o disperati, a volte ammalati, a volte innamorati, a volte soli, ma sempre lottiamo, anche quando siamo depressi, che è solo un modo per dire "Ehi, non ce la faccio, aiuto"
Perchè noi siamo guerrieri.
Guerrieri della vita.
Che a volte si stancano.
Che a volte si vogliono arrendere.
Ma poi risorgono.
Ci riprovano.
Un giorno ce ne andremo.
Con onore.
Ma lasceremo questa vita.
E tutto quello che avremo fatto, le lotte, i sogni, le vittorie e le sconfitte, saranno l'eredità dei figli che abbiamo generato.
Un mondo dove abbiamo sognato e sperato.
A volte odiato.
Siamo parte di un universo che Dio ha orchestrato perchè tornassimo a casa.
Siamo in un villaggio turistico, da cui dovremo tornare.
E se questo posto che noi chiamiamo mondo lo inondiamo di luce, di sogni, di sconfitte luminose e vittorie solidali, saremo grandi.
V
inceremo la battaglia della vita.
Che, credetemi, è una figata sempre.

http://www.amazon.it/Manuale-del-guerriero-della-luce/dp/8845231836

mercoledì 3 settembre 2014

I NOSTRI FIGLI SONO FIGLI DELLA FAME CHE LA VITA HA DI SE'

Ho alcuni amici che hanno famiglie numerose, con cinque, sei e anche undici figli, voluti, amati e cresciuti nell'amore.
Ho amici che hanno un figlio, perchè se no cosa ti sposi a fare, capitato, cresciuto e svogliatamente amato.
Ho amici senza figli, amici con famiglie allargate, ho nipoti e ragazzi che ho accudito.
I figli sono la fame che la vita ha in sè, lo dice Kahlil Gibran, che tutti conoscono per il suo libro "Il Profeta".
Vogliamo i figli.
Vogliamo famiglie.
Vogliamo partners.
Abbiamo dentro di noi una spinta che troppo spesso condanniamo: il desiderio di comunicare, di non restare soli, il sogno di sentirci vivi in uno scambio.
Se Dio non ci avesse dato quello saremmo tutti soli, liberi, contenti di esserlo.
Invece, anche gli irriducibili del vivere soli, del non legarsi, sono vittime di un legame morboso con un genitore che lo ha soffocato, quindi non ripetibile con un partner, per paura di perdere quella spinta di vita che è la ragione del nostro cercare.

Vogliamo un figlio perchè sentiamo, senza che nessuno ce l'abbia detto, che è un legame unico, che ci terrà ancorati qui, che ci farà sentire che non siamo inutili, invisibili, irrilevanti.
Alcuni di noi, però, non riescono ad essere buoni genitori e non parlo di chi li abbandona, i figli, o li uccide, ma di quelli di noi che, alla fine, si chiedono come mai non sono amati, perchè non sono riusciti ad avere un buon rapporto con i loro ragazzi.
E come mai non sono riusciti ad amarli.
Non sono riusciti a penetrare quell'immenso che c'è nel rapporto con un figlio.
Stanchi delle loro esigenze, stanchi dei loro perchè, stanchi di quello scambio che vorrebbero piu leggero.
Nessuno dovrebbe sentirsi in colpa perchè non è stato un buon genitore: nessuno lo fa apposta.
Quando mai ci siamo sentiti in colpa per non essere bravi figli?
Il genitore si trova, come prima da figlio, nella posizione senza essere stato eletto, di colpo.
E si arrangia, cercando di informarsi, di fare il meglio che può. Parlo di quei genitori che accettano il ruolo, che sono nella norma.
Questi, insieme al resto della vita, devono accettare i complicati sentieri di un altro animo umano, seppur piccolo, che si fa strada tra dubbi e incertezze, a volte affamato di protezione, altre intriso di ribellione e di libertà.
In mezzo ci sono i genitori, una volta spinti dall'anelito di moltiplicarsi, dare un segno tangibile, esistere.
Ma ormai presi in un ingranaggio che ci travolge.
E diventiamo educatori disattenti. non li ascoltiamo più, non gli parliamo più.
Sì, forse volere figli è una spinta egoistica, ma tutti siamo egoisti, diventiamo cinici e indifferenti quando siamo feriti; allora ci isoliamo, stremati dalla malinconia di una vita che non va come vorremmo, cerchiamo disperati ogni goccia di piacere e consolazione che possiamo trovare da soli.
 Se invece non avessimo paura dell'egoismo sano, potremmo dire ai nostri figli che a volte anche mamma e papà sono stufi: stufi delle relazioni e dei loro slogans.
Anche mamma e papà vorrebbero prendersi una vacanza emotiva, vedere come si sta senza preoccuparsi di qualcuno che si aspetta da loro protezione ma libertà, ascolto ma discrezione.
Anche mamma e papà hanno voglia di mandare tutti a quel paese, perchè a volte si sentono in gabbia, ma che non significa non amare più.
solo non farcela più senza un bel va a quel paese mondo.
Parliamo con i nostri figli, diciamo loro che se non abbiamo voglia di discutere non è perchè non li amiamo, ma perchè siamo stanchi.
Siamo stanchi di dover dimostrare al mondo che non ci stanchiamo mai di amarvi.