giovedì 26 giugno 2014

LE LUCINE DEL CAMPO VISIVO E IL NUMERO CINQUE DI DUNBAR





Il mio secondo campo visivo mi ha sorpreso: sembra migliore del primo, anche se so che è impossibile.
La seconda signorina che me lo fa è altrettanto calma e gentile, tanto da farmi definitivamente convincere che se sei un tipo nervoso ti scartano.
Non ho mai visto cosa fanno mentre tu sei lì che devi definire cosa vedi della vita e cosa no, loro non dicono una parola.
Potrebbero lanciare, ogni tanto,  un evviva commosso, un dai che ce la fai.
Invece ti lasciano ai tuoi pensieri, mentre tu speri di vedere tante lucine.
Quando arrivo all’occhio sinistro, passa qualche minuto prima che io prema il pulsante.
Caspita, mi dico, sono proprio messa male.
Durante un colloquio per fare la baby sitter, questa cecità a metà mi ha causato problemi.
L’agenzia era di quelle specializzate in baby sitters altamente qualificate, come neolaureate in lingue, interpreti, infermiere ecc.
Pagano come un ingegnere, ma devi portare a spasso i rampolli di ricchi clienti, che vogliono il meglio per i loro bambini.
Il tipo mi fa il colloquio, si ferma a Venezia una settimana, mi da una fraccata di soldi, ma vuole che parli in inglese perfetto ai bimbi e gli faccia visitare la città.
Quando gli piaccio, mi allunga un foglio e io, a causa dell’occhio sinistro, allungo la mano tre centimetri troppo in là, rispetto al foglio che mi porge per firmare.
“Lei ha problemi agli occhi?” mi dice ritirando il contratto.
“Ho il glaucoma, ma ci vedo, non ho problemi”
Lui si scusa per la pignoleria, anzi è decisamente molto dolce, ma dice che preferisce una baby sitter sana.
Con un occhio chiuso, se provate, le distanze si distorcono.
“Ma scusi, dottore” chiedo al mio oculista “ ma perché allora quando prendono la mira per sparare, chiudono un occhio?
“Per un altro motivo” mi risponde il dottore.
Comunque, il campo visivo lascia poche illusioni, comincio a vedere le lucine dopo qualche minuto e la percezione delle distanze me la posso scordare.

Nella vita, la mia percezione delle relazioni è personalizzata da una vita affettiva a metà.
Non ho mai avuto, davvero, una famiglia.
Nessuno capisce perché, ma nonostante fossimo in cinque, io non ho mai considerato quelle persone la mia famiglia: i miei problemi erano irrilevanti, i miei dolori erano sempre meno dolorosi dei loro e le mie esigenze erano sempre pretese capricciose.
Io invece credo che, soprattutto da piccoli, non esistano vizi e capricci.
Il bambino esige, certo, ed è giusto fargli capire che non deve ottenere tutto.
Ma dall’intensità dei suoi capricci, come dall’intensità del suo dolore, noi dobbiamo capire la fragilità della sua anima.
Non può essere sempre no e sempre ridicolo tutto quello che desideri, altrimenti il bambino fatica a vedere la giusta distanza tra una cosa che si può fare e un’illusione.
Quando io avevo un sogno, per quelle persone era solo impossibile.
Volevo fare danza classica: assurdo.
Volevo scrivere: assurdo.
Volevo anche sposare Mickey Mouse e quello sì che era assurdo.
Ma se tutto viene catalogato come stupido, tu cresci credendo di essere assurda, o rifugiandoti in un mondo dove loro non entrano.
Certo, non mi hanno abbandonato, ma mi hanno voluto a metà, facendomi credere di essere sbagliata.
Beep…
Finalmente il mio occhio sinistro ha visto qualcosa.
Dicevo della mia famiglia.
Ho smesso di interagire e interessarmi a loro decenni fa.
Mi hanno chiamato egoista.
Ma è solo un nome.
E’ un modo come un altro per definire un disagio.
Io, per sopravvivere, ho dovuto smettere di voler bene alla mia famiglia.
Beh, ci sono conseguenze.
O diventi una belva, o sostituisci la famiglia con altri che il cielo ti manda.
Amici, amanti, colleghi.
Avendo lavorato in giro per il mondo per anni, i colleghi erano entità eteree, ma io ho imparato da loro a dare tutto subito, come a un nuovo nato in famiglia.
Dicono che io ho un’idea dell’amicizia molto personale: tendo ad essere troppo intima e troppo subito.
Ma non è vero: io vedo amici che si trovano a cena, che fanno un sacco di cose insieme, che ci sono quando ti serve e io, semplicemente, non perdo tempo, anche se ormai non viaggio più.
Quando abitavo in America, ho vissuto per un po’ a casa di un amico, a Tribeca, dove il weekend si ritrovavano tutti gli amici: per uno che se ne andava il sabato, ne arrivava un altro, molti si davano appuntamento lì e le cene erano feste e le colazioni erano scambi culturali.
Ho dato e ricevuto più in quei weekend che negli anni passati nel mio paese.
Capisco che, quando vivi sempre in un posto, dove hai modo di annusarti ed essere diffidente, fatichi a capire come può una persona darti tutto subito.
Ma quando scappi dalla tua famiglia, che avrebbe dovuto amarti e non lo ha fatto, capisci che, perdendo tempo, perdi persone e non c’è motivo di diffidare degli estranei, quando chi doveva amarti non lo ha fatto.
Cosa può farti un estraneo se chi amavi ti ha rifiutato?
Cosa può farti di peggio?
Certo, non è tutto facile.
Se abiti a Tribeca e i tuoi amici sono Letterman e DeNiro tutti pensano che sei generoso perché sei generoso.
Se tu sei generoso di sentimenti, devi avere carisma, o sembri un patetico mendicante in cerca di elemosina.
Per avere tanti amici ci vuole carisma.
Io ce l’ho, a metà.
Sono divertente e sensibile; ascolto e do consigli che rasserenano la mente.
Per il resto mi ingegno: cucino benissimo, così gli amici vengono per gola.
Mi interesso a loro, se vedo qualcosa che può piacere, lo prendo e lo regalo.
Insomma, li faccio diventare la mia famiglia.
Certo, non sono una che da prestigio frequentarla, vivo in una casa che cade a pezzi, non sempre mangio e quindi molti li perdo per strada, ma solo riguardo l’assiduità.
Quando ho avuto delle difficoltà, ho scoperto tante persone che non mi cercano mai, ma sono pronte a venirmi in aiuto, se ho bisogno.
Inoltre, nella mia vita sgangherata, fatta di eccessi e viaggi intercontinentali, nessuno mi ha mai dimenticato.
Ho amici in America e in Australia, in Europa e in Italia e quando dico amici intendo amici.
Certo, nelle lunghe sere invernali nel mio paesino, mi piacerebbe avere ospiti, ma non si può avere tutto.
“Vede questi numeri?”
L’oculista mi mostra il referto del mio campo visivo e mi spiega quei numeri.
Io non capisco molto e non perché sia inebriata dal suo charme, che senza dubbio inebria, ma proprio perché io di oculistica, pur essendoci immersa per malattia, non ne capisco.
Come gli uomini.
Sono circondata da uomini, ma non li capisco.
Preferisco, quando mi piacciono davvero, farmeli amici e metterli nel numero cinque di Dunbar.
Dunbar è uno psicologo inglese, che ha elaborato una teoria: abbiamo al massimo 150 amici di cui ci importa davvero e cinque persone che ci sono care, intimamente.
Se entra qualcuno nel numero cinque, un altro se ne deve andare.
Questo numero vale anche per chi ha famiglie numerose: dopo il cinque, non ti importa molto.
Io nel mio numero cinque ho gli amici e i miei dottori: due amici che non mi hanno mai abbandonato e i dottori che mi hanno  curato.
Nessuno della mia famiglia è lì, perché per essere nel numero cinque devi aver fatto qualcosa di buono.
Io, non so perché, qualcosa di buono l’ho ricevuto dai miei dottori e anche le signorine del campo visivo, quindi capite che, dopo la mia frequentazione a Oculistica, il numero cinque è affollato.
Sembra patetico considerare amici persone che vedi due volte l’anno, ma non lo è: l’importante è quello che provi e quello che vedi; io ho visto, nella vita, che il mio segreto l’ho raccontato per la prima volta al mio oculista, perché lui l’aveva visto in fondo ai miei occhi, e c’era anche la signorina del campo visivo, perché una persona così gentile non l’ho mai trovata.
A modo loro, mi hanno protetto.
Avrei sempre voluto un fratello maggiore, uno che mi proteggesse dagli attacchi della vita, avrei voluto una mamma affettuosa e una famiglia che mi ritenesse speciale, ma non è successo e io mi sono ingegnata a trovarla fuori.
“Siamo fortunati” dice l’oculista, partecipando al mio destino di orba “vede questi due punti centrali? Sono quelli che ancora le permettono di vedere e non li abbiamo persi”
E’ felice, il mio dottore, e questo mi fa sentire come se fossimo amici.
Un amico è contento quando sei contento tu; un amico si preoccupa per te e, se capita, si diverte con te.
Ma io non percepisco le distanze: come tutti i veri viaggiatori, che non sono turisti, ma abitanti del mondo, sono abituata a trovare e perdere tante persone, quindi tendo a condensare tutto in pochi mesi.
Ma come per l’egoismo e gli antipsicotici, è solo un modo di vedere, un’abitudine diventata inutile.
In Turchia, dove mi trovavo sul set di un film ospite di un amico, una sera, mentre tutti si rilassavano e mangiavano, io ero uscita sul terrazzo: guardavo il tramonto sul Bosforo e mi chiedevo come sarebbe stato vederlo bene; aveva ragione il mio oculista, avrei dovuto andare da lui prima.
La star esce e si avvicina a me.
“Pensieri?”
Mi giro e lui nota che sto piangendo.
“Che succede?”
“Penso a un uomo che mi piace, ma lui non ricambia.
Sai, a me sembra negata metà di tutto: amicizia, amore, questo tramonto.
Se chiudo l’occhio sinistro, non cambia niente, vedo la stessa cosa di quando ho gli occhi aperti, sembra tutto uguale, ma c’è come un velo, come un invisibile negazione della felicità intera. Se amo qualcuno, sembra tutto a posto, ma lui non ricambia, sono simpatica, non c’è niente, solo una invisibile negazione”
La star mi abbraccia.
“E’ come se” continuo “un velo che non se ne va, nemmeno se sfrego gli occhi, si mettesse sempre tra me e quello che vorrei.”
“Sei speciale, sei gentile con tutti e non intendo con gli attori, ma con i cameraman, con i ragazzi del catering, con tutti; sembri tu la star, tratti tutti con rispetto e tutti chiedono dove sei, se ti fermi. Io non mi divertivo così da mesi. Mi hai fatto tornare il buonumore e non lo dimenticherò mai.
A volte l’amicizia arriva quando meno te lo aspetti e non è velata, è solo così. Devi solo imparare a capire che quello che dai tu è un’esigenza tua e non significa che gli altri ti amano meno, se non hanno così bisogno di vederti.
Credo che non ci rivedremo più, quando saremo tutti a casa, ma ci porteremo nel cuore”
Restiamo così, abbracciati, finchè io smetto di singhiozzare, poi lui mi dice
“Se lui non ricambia, non è un amore a metà, ma un amore intero un po’ più doloroso.
Qui tutti ti hanno voluto bene, non li rivedrai più, ma è un’amicizia vera, perché tutti vogliono sapere la tua storia.
E questo tramonto, che ormai è notte, non l’hai perso, ma l’hai vissuto con quello che hai.
Vivi la vita così”
“Anche la pressione è a posto” mi dice l’oculista contento
Aveva ragione la star: lui e l’oculista mi hanno dato di più della mia famiglia tutta insieme, si sono occupati di me e mi hanno curato.
L’amicizia, come le lucine del campo visivo, appare dove non te lo aspetti, devi solo guardare bene e premere il pulsante al momento giusto.

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